martedì 23 aprile 2013

solo cinque minuti


Che darei per averti cinque minuti! Solo cinque minuti, cosa sono in fin dei conti? un granello di polvere di fronte al’immensità.

1° minuto: per raccontarti tutto quello che mi è successo.

2° minuto per sapere tutto quello che ti è successo.

3° minuto per chiederti come sarà dopo il futuro e se sarai con me.

4° minuto per sentire ancora la tua voce che mi calma ancora e mi da coraggio.

5° minuto per abbracciarti forte a me, perché quella tenerezza non mi fa più paura e ho bisogno di risentirla ancora

…. Il quinto minuto dovrà essere però lunghissimo, perché ho bisogno anche di fiducia e sapere che non ti ho deluso..


venerdì 19 aprile 2013

Una giornata così...


Ma sei tutta matta?” dico quasi urlando a mia cugina per telefono, mentre lei continua a tirar giù varie motivazioni che vanno dalla “stai troppo a pensare” a “cosi respiri un po’ d’aria”. Mi ha nominato come adulto accompagnatore alla gita di mia nipote, e sono stata accettata.
Ed ecco che alle 8 del mattino sono davanti al piazzale della scuola, circondata da una orda di bambini di otto anni e una insegnante silenziosa con tanto di occhiali scuri, vestita sportiva, ma con un esaurimento nervoso in pieno corso. Dopo aver fatto il conteggio dei bambini, zaini, maglioncini, raccolto liste delle raccomandazioni materne sul mangiare, raffreddori e allergie varie, finalmente saliamo sul pullman.
Il mio posto è davanti, accanto all’insegnante, già munito di microfono. I bambini invece proseguono nel corridoio centrale.
Si passa all’ennesimo conteggio per vedere se ci sono tutti, poi si parte.
La porta si chiude facendo il classico suono a sbuffo, fuori i genitori cominciano a sbracciarsi per i saluti. Mi sembra la partenza del Titanic, sperando di non fare quella fine, però! L’insegnante acchiappa il microfono raccomandando a tutti inutilmente di star seduti, l’autista da una strombazzata e comincia a roteare il volante. Ok, ci muoviamo.
Dopo una decina di chilometri, le voci urlanti cominciano ad affievolirsi, il loro rumore viene lentamente sostituito da quello di pacchetti di merendine che si aprono, e sul pullman si sparge subito l’odore dolciastro del lievito e burro di fabbrica. Qualcuno con la merenda salutare preparata dalla mamma c’è, ma decide di barattarla per un saccottino del mulino bianco al cioccolato.
La prima destinazione è la visita al parco-zoo “dal vivo”, come recita un depliant che ho a disposizione.
Passiamo con il pullman all’interno del parco naturale, osserviamo qualche elefante, un paio di struzzi.
Qualcuno urla di aver visto un leone, impossibile risponde un altra con aria saccente, quelli cacciano solo di notte. Meno male, se per caso buchiamo una gomma almeno possiamo scendere per sostituirla. Riconosco che oggi non sono molto ottimista, ci mancherebbe che buchiamo una gomma; però l’idea del leone che dorme francamente non mi dispiace.
Arriviamo in uno spazio aperto e ammiriamo un paio di giraffe che comodamente stanno mangiando delle foglie strappate da un albero. Il mio ottimismo migliora, vedere quel collo lungo non posso immaginare il dolore che può avere una giraffa con la cervicale!.
Proseguiamo fino all’uscita del parco, la nostra nuova destinazione è il museo di pittori contemporanei. Pittori contemporanei? L’insegnante, che fino ad allora non aveva ancora aperto bocca, finalmente mi parla, e mi spiega che i tempi sono cambiati, ora le generazioni sono più avanti. Sarà, ma io non mi rimpiango i tempi che giocavo a pallavolo durante una gita.
Arriviamo al museo, l’autista è preso da un momento da Miami Vice, decide di fare una bella curva davanti al piazzale dell’entrata, girando lo sterzo con una mano, e voilà! Eccoci in sosta davanti alla scalinata, nonostante le varie borse e panini che sono rotolati per terra, devo riconoscere che scendiamo perfettamente davanti alla scalinata.
Tutti in fila per favore, e non muovetevi. Ordine non recepito: sale su per la scalinata una orda barbarica di bambini sudaticci e spettinati, inseguita da due adulti altrettanto sudaticci, ma urlanti come due gorilla.
Avanti contiamo se ci sono tutti. Perché? Temi che qualcuno sia rimasto a bordo a tenere in ostaggio l’autista? Lascio perdere e non lo dico. La conta comunque ha dato un risultato positivo; ci sono tutti.

Entriamo nel museo, accolti da una sensazione di fresco. Marmi lucidi da tutte le parti, e quadri di arte contemporanea, messi in fila lungo corridoi illuminati dal sole che entra da vetrate altissime. Confesso che ogni volta che entro in un museo subisco sempre quella sensazione di maestosità: è una sensazione bella, di rispetto. Anche i bambini ne subiscono il fascino, rimangono silenziosi, in fila dietro l’insegnante, con le faccine rivolte all’insù ad ammirare i quadri appesi. Non me l’aspettavo, avevo immaginato più confusione considerata l’età, ed invece sono tutti molto educati.
Ne vado orgogliosa, c’è anche mia nipote che partecipa…a proposito dov’è? Non la vedo in mezzo al gruppo, né lei, né le sue due amiche del cuore. Mi si gela il sangue.
Ritorno indietro di un paio di corridoi, chiedendo a vari custodi se hanno visto tre bambine insieme, ma nessuno mi sa rispondere. Ho il panico: perdere tre bambine così è davvero ridicolo! Cosa racconto a mia cugina? Che mi sono distratta per i quadri? O che ero troppo occupata a godermi il fresco dei marmi?
Mentre ripercorro con il cuore in gola i corridoi già visitati, mi ricordo una sala un po’ nascosta, forse sono lì.
Infatti le trovo tutte e tre che guardano, con la testa piegata al rovescio, un quadro di Paul Klee. Mia nipote vedendomi arrivare, mi corre incontro raggiante, annunciando che hanno scoperto che quel quadro è appeso al contrario. Scoppio in una risata sonora, anche per la tensione, l’abbraccio stretta a me, affondando il naso nei suoi capelli che sanno di buono. Ma mi faccio poi vedere arrabbiata per il loro comportamento: dovevano seguire il gruppo e perlomeno far presente che volevano fermarsi. Tenendoci tutte per mano, ci muoviamo di corsa per riunirci al gruppo.
La gita è quasi conclusa, dobbiamo fare solo la sosta per il pranzo, poi proseguiremo per il rientro.
Il pullman all’interno è una festa di voci e cartoline colorate, anche l’autista è di buon umore, ha regalato un fiore a me ed uno all’insegnante, che finalmente si è tolta gli occhiali scuri, rivelando un viso perfetto e due occhi nocciola dolcissimi.
Raggiungiamo un autogrill enorme e ci dirigiamo verso il parcheggio autorizzato. Scendiamo tutti insieme, ci contiamo un’altra volta, e poi saliamo su per le scale di entrata. Superiamo in corsa un gruppo di turisti, sperando di essere noi i primi a fare la fila per il pranzo. Arriviamo infatti che ancora ci sono pochissime persone nel salone e tutti insieme prendiamo i vassoi, scorrendo uno per uno, davanti alle vetrine appannate dei pasti caldi. Io resto fuori dalla fila per controllare che ognuno di loro prenda le porzioni giuste, la maestra invece che siano secondo le liste delle diete raccomandate dalle mamme. Poi finalmente ci sediamo comodamente ad un paio di tavoli lunghi. E’ divertente star a mangiare con loro, soprattutto vedere i dispetti che si fanno l’uno con l’altro, le loro rivalità su chi è più bravo a fare cosa. Ma prima di uscire è giusto che ci sia anche la pausa pipì.
Mia nipote subito mi chiede di accompagnare lei e le sue amichette ai bagni, mi piace essere considerata una capo banda, e in testa alla fila ci dirigiamo verso i bagni. Una pausa un po’ lunga, ma dobbiamo considerare i tempi della tenuta porta senza chiudere a chiave e le lavate di mano. Poi, sempre come capo banda, ritorniamo sul corridoio per scendere al parcheggio.
Ma qualcosa non va. Quando arriviamo alla fine delle scale, il posto è diverso, mia nipote però insiste che il pullman è dietro la fila delle macchine. Ci arriviamo ma non c’è.. abbiamo preso il corridoio nella direzione sbagliata. Tutti su a fare la scalinata di corsa, intruppando varie persone che scendono pieni di pacchetti e bottiglie d’acqua. Calma ragazze, non vanno via senza di noi, ma sbrighiamoci! gli dico mentre corriamo lungo il corridoio che fa da cavalcavia dell’autostrada. Chi passava in quel momento poteva gustarsi la scena: una banda di bambine, armate di cappellini, accompagnate da una adulta che è più ragazzina di loro. Guarda zia: c’è la rivista che ti piace qui! Non è il momento, andiamo.
Scendiamo giù le scale dalla parte giusta e tutte insieme raggiungiamo il pullman già pronto con motore acceso. Saliamo di corsa, finalmente si va verso casa. Posso dire che mi sento sollevata? Si che lo posso dire. Che giornata!
Arriviamo a scuola, ci sono vari saluti e strette di mano; prendo mia nipote per portarla a casa, le sue due amichette si avvicinano per salutarmi, e una di loro mi dice “Signora la prossima volta ritorna con noi in gita? Perché lei è veramente un “taglio”?”
Mi fa piacere che me lo abbia chiesto… ma vedremo!



lunedì 8 aprile 2013

io voglio il lieto fine

Una giornata ventosa, che sembra fatta apposta per il mio umore. Sono in compagnia di un amico di  che, come me, è senza lavoro.
Stamani siamo andati ad una agenzia interinale, abbiamo riempito moduli, fatto test attitudinali, valutato le conoscenze delle lingue straniere.
Alla fine hanno inserito i nostri nominativi nel loro database e detto che saremo contattati al più presto.
Al più presto quando? Ho chiesto alla ragazza, vestita con la divisa colorata dell’agenzia: “Non posso essere precisa, dipende dalle posizioni che sono richieste. Arrivederci” è stata la risposta, accompagnata da un sorriso falso e sistemata di occhiali firmati sul naso. Avrei voluto dirle a chiare lettere che non c’era bisogno del sorriso di sufficienza, bastava parlare, e non farmi perdere tempo a riempire tutti quei questionari e moduli valutativi. Ovviamente non l’ho fatto, ho tenuto a bada la mia frustrazione; non è colpa sua, è una dipendente che sta svolgendo semplicemente le sue mansioni.
Così, finalmente, siamo usciti all’aria aperta, e incamminati lungo il viale per ritornare a casa. Una sosta al bar per un caffé, un giornale all’edicola lì vicino, ed eccoci seduti alla panchina dei giardini. Lui intento a leggere un articolo di politica, io invece ad osservare le persone che passano.
In lontananza si sente il vociare animato dei ragazzi dall’uscita da scuola, mi diverto a guardarli mentre arrivano di corsa, con giacche legate in vita, che poggiano senza grazia i loro zaini per terra. Uno di questi sale su un tronco d’albero reciso e inizia a ballare, qualcuno lo riprende con il cellulare, altri invece si scambiano orari di appuntamenti, e tutti diversi. Mi vien da pensare se sono scoordinati loro, oppure io ho un’altra concezione del tempo.  
Provo una punta di nostalgia per quella leggerezza, ma ogni età ha un suo percorso di vita. Io l’ho passata tempo fa, ma mi manca quella sensazione del tutto è possibile nel futuro, soprattutto ora.
Non può essere sempre così,  e non voglio che sia sempre così tutto incerto.
“Voglio il lieto fine!” mi scopro a dire a voce alta. L’amico, seduto vicino a me, alza lo sguardo dal giornale e mi sorride. “Se vuoi il lieto fine, ci sarà. Ma non nutrire tante aspettative, sii realista.”
Sono realista, ma mi rifiuto di essere così. Ho 50 anni compiuti, ho ancora tanta di quella energia che spaccherei quell’albero reciso, anzi ci salirei sopra, mandando una bella musica dance a palla e farei ballare tutta la via. Perché non devo avere un lieto fine? Sono realista perché credo in quello che sogno.
“D’accordo:  ma i sogni sono belli perché tali” mi risponde lui. Ma quando senti che tutto ti crolla addosso, io ho imparato a farmelo scrollare dalle spalle e a salirci sopra.
Si, ho detto a salirci. Non so cosa ci sarà nel mio futuro, ma tutto quello che mi pioverà addosso, io continuerò a scrollarlo dalle spalle e a salirci su. Fino a quando tutto questo diventerà una montagna, e se continuo a salire, scrollata dopo scrollata, io sarò su in cima alla montagna. Io avrò lieto fine, perché lo voglio.
“Caro amico mio, i sogni possono diventare realtà, soprattutto quando non hai nulla da perdere…Benvenuto nuovo che avanzi!” .

lunedì 1 aprile 2013

Cani con la pistola


E’ ancora notte, il silenzio totale fuori nell’oscurità. Ho dormito solo poche ore, poi ho aperto gli occhi e il cervello ha ripreso a lavorare.
Ieri è stata una giornata strana, sapevo già che l’azienda mi avrebbe licenziato per la crisi economica che sta attraversando. Lo sapevo, sono io che mi occupo della contabilità, ma sentirsi dire “mi dispiace doverti licenziare, ecco la lettera” è stata comunque una pallonata allo stomaco. Una sensazione strana: sembrava di stare dentro un tunnel con il rimbombare dell’eco. Una frase detta calma, ma un tornado nella testa.
Mi siedo al tavolino, accendo sotto al caffè, tanto so che non riuscirò a dormire. Prendo un blocco notes e comincio a fare un po’ di conti. Allora le bollette da pagare, il condominio, la rata del mutuo... La matita sembra pattinare sulla carta. Ad occhio e croce ce la posso fare per un po’ di mesi. Ma alla fine di questi, avrò trovato già un lavoro?
Mi accorgo che ho già scolato tutto il caffè, cribbio! Devo cominciare a far attenzione a quello che faccio: altrimenti mi rovino anche il fegato, e questo è un paese dove non puoi permetterti il lusso di star male. Che risata amara!. Questo è un paese solo per ricchi, come anche il resto del mondo, probabilmente.
Ma la rabbia che cova sotto è un’altra, è la rabbia di aver fatto tutto il possibile nelle mie mansioni, di aver svolto con coscienza il mio lavoro, sempre negli interessi aziendali. E alla fine sei comunque un numero, dove puoi tracciare una riga sopra e scrivere annullato.
La beffa: lasciare tutto in ordine e passare il lavoro ad un socio dell’azienda., quindi nelle ultime due settimane mi sono trovata a dar istruzione di contabilità e nozioni di computer. Due settimane pesanti, ma finalmente chiuse.
Ovviamente già ho inviato e fatto varie domande. Ho iniziato a fare telefonate a parenti e amici. E purtroppo non è che in giro abbia trovato una situazione confortante: è un continuo scoprire di altre persone che stanno rischiando o sono già senza lavoro.
Un disagio generale, e se sei disoccupato, può trasformarsi in depressione. Non so ancora cosa succederà, ma se questo paese non ritorna a creare lavoro, la povertà sarà una percentuale pesante da gestire. Io non sono una economista, sono una che fa semplicemente conti e basta.
Nel mio semplice mondo lavorativo so che ogni azienda che muore, c’è un gruppo di altre aziende che perdono un cliente, e la crisi è una catena economica.
E mentre io, come altri di qualsiasi fascia di età, stiamo cercando disperatamente un lavoro, c’è chi sta discutendo e riflettendo sul nuovo governo, c’è chi non si accorda o non vuole accordarsi, e un popolo che ha votato un mese fa, sta andando sempre più in malora.
Il disagio lo senti nell’aria e lo tocchi con mano: quando fai la spesa al mercato e assisti a discussioni animate tra acquirenti su chi è arrivato prima a prendere l’ultimo prodotto in offerta.
Nella rabbia che vedi quando guidi in mezzo al traffico.
Negli spintoni sull’autobus stracolmo per cercare di salir su, perché siamo tutti stanchi di aspettare e rischiamo di fare ritardo al lavoro.
Commento queste scene di vita vissuta e mi accorgo che anch’io sto sfogando una rabbia di disagio. Ancora ragiono, perché in coscienza so che la rabbia impulsiva non porta a nulla, anzi, rischio di danneggiarmi. Ma  la sento già dentro di me, nelle viscere, come un fuoco sotto la brace. Riuscirò a trasformarla in qualcosa di produttivo? Mi auguro di si.
Intanto osservo un popolo che sa lavorare e sa produrre, ma che ancora non si rende conto della propria forza impetuosa. Una forza che qualsiasi governo dovrebbe aver timore, perché qui ci stiamo trasformando in cani abbandonati a se stessi, ringhiosi, rabbiosi. Cani con una pistola in mano.