venerdì 31 maggio 2013

riuscire, bene-

Riuscire. Rimbalza la parola da una parte all’altra della mente. La stanza silenziosa, un leggero movimento di tende fa da respiro alla casa. Riflessi di sole giocano sul muro.
Riuscire. Ripeto dentro la mia testa.
Nessun movimento, non muovo neanche un muscolo. Va bene, Provo a respirare seguendo il ritmo fluttuante delle tende. Ecco, il tessuto si gonfia, ok vai. Inspiro l’aria dal naso, sento il torace che si gonfia. Bene. Ora butta l’aria fuori con lentezza. Ecco, così.
Riesco a calmare le onde dentro di me.
Riuscire.
Va bene, Va tutto bene, ora concentrati su quello che hai fatto fino ad ora. Pensa. Non è andato tutto male. Pensa. Respira di nuovo. Perfetto.
Sono una bravissima coach. Ora respiro regolarmente. Il cuore sta battendo lentamente. Le tende si muovono lentamente.
Ripeti con calma la parola: riuscire. Perfetto, la ripeto ancora. Riuscire. Ottimo.
Sto migliorando, la presa che sentivo alla gola non c’è più. Ora sono una assenza di ostacoli, mi posso fermare e pensare perché non ho bisogno di sbaragliare questa assenza.
Riprendo a muovermi, mi alzo da terra con calma. No, il caffé non è un buon consiglio. Prendo un bicchiere d’acqua. Che buona, è fresca e scende giù in gola facilmente. La testa gira ancora ma va bene, sta passando tutto.
Riuscire. Si, ce l’ho fatta, sono in piedi. Pensa, Si penso e sto progettando di nuovo. Bene. Anche per oggi è andata!


venerdì 10 maggio 2013

l'importante è vivere (non solo ricordare)

Era la cugina scapestrata di mia madre. Tutti commentavano sempre che non c’era da fare affidamento su di lei. Ma mia madre no:.era la sua cugina preferita e divenne ben presto la mia zia preferita.
Ricordo i suoi capelli mogano, come quelli di mia madre. Tutte e due avevano sempre chiome fluenti sulle spalle e non era un caso vedere uomini che si voltavano a guardarle mentre passeggiavano insieme nelle vie centrali della città.
Mia zia non si è mai sposata, era uno spirito libero. Scriveva articoli di moda e le piaceva dire che era il lavoro che aveva scelto lei, perché la portava spesso a viaggiare, e ogni volta che tornava, aveva sempre un regalo particolare. Qualche volta anche dei vestiti fatti da sartorie e il soggiorno diventava un caos di pacchi e carta velina.
Lei era così, dove arrivava c’era allegria e tanta musica. Si toglieva le scarpe e con mia madre provavano a ballare un passo particolare visto in qualche viaggio. Era un fiume di aneddoti: ricordo di serate invernali, sedute sul divano con le gambe raccolte tazza di cioccolata fumante in mano, e lei, con i suoi capelli lunghi che scostava dal viso con un gesto aggraziato della mano, che raccontava e raccontava.
Quando mia madre morì, per mia zia fu un brutto colpo. Non veniva più spesso a casa mia, poi fui trasferita per motivi di lavoro  e ci perdemmo di vista.
Dopo cinque anni riuscii a rientrare a Roma e l’andai a trovare subito. Era sempre allegra, ma la luce dei suoi occhi era diversa. Capii il perché. Avevamo deciso di fare un caffè, lei si diresse in cucina per metter su la macchina, io rimasi a guardare la televisione.
Dopo un po’ mi accorsi che stava passando troppo tempo. Mi alzai dalla poltrona e andai in cucina, la trovai davanti ai fornelli, immobile. La chiamai, lei si voltò e mi guardò sorridendomi. Qualcosa non andava. Le chiesi se aveva bisogno di aiuto e mi rispose con un cenno della testa, poi parlò e mi disse che non sapeva come si faceva il caffè. Non ti preoccupare: faccio io.
Il giorno dopo chiamai il medico e la portai a fare una visita. Stava cominciando a perdere la memoria, era un segno di vecchiaia, ma andava tenuto sotto controllo. Ci furono altre visite e risonanze magnetiche negli anni successivi, fino alla decisione finale che prese lei direttamente: vendere casa e andare in una residenza assistita. Rideva ancora mentre preparavamo gli ultimi bagagli, ma non volle che la seguissi dentro la residenza, perché i giovani devono stare con i giovani. Provai ad insistere, ma con le medicine che prendeva era soggetta a scatti di rabbia. Lasciai stare, pensando che poi sarei andata a trovarla. Dopo un paio di settimane mi chiamarono al telefono urgentemente: mia zia era peggiorata notevolmente, non c’erano molte speranze.
Mi feci forza e andai. Era stesa sul letto, con i capelli, ormai bianchi, raccolti in una treccia lunga, con un piccolo fiore di seta in fondo. Mi avvicinai al letto, teneva gli occhi chiusi, ma li apri subito come misi la mia mano sulla sua. Mormorò il mio nome e mi sorrise. Non mi resta più tanto, ma cosa dici? Le risposi, non è vero, hai solo un po’ di febbre. Mi tremava la voce, ripassare un altro dolore no, basta.  Mi disse di accendere lo stereo che aveva vicino al comodino, lo feci e venne fuori un valzer bellissimo.
Quante volte lo abbiamo ballato io e Raule. Chi era Raule? Il suo viso improvvisamente ebbe un colorito roseo. Raule era un uomo conosciuto a San Francisco, bellissimo, che le faceva la corte, voleva sposarsi, ma lei – testarda – le disse di no. Continuarono comunque a vedersi. Fino a quando poi lui conobbe un’altra donna che invece rispose si alla sua proposta di matrimonio. Non l’aveva mai raccontato a nessuno di questo amore. Continuava a mormorare le note del valzer, ondeggiando lievemente la mano con il tempo della musica. Allora mi accostai di più a lei e le sussurai all’orecchio di salutare i miei genitori quando sarebbe andata di là. Lei aprì gli occhi e mi rispose che lo avrebbe fatto, perché sicuramente erano già pronti ad accoglierla. Rimasi vicino al suo letto, fino a quando sentii l’ultimo suo respiro. Leggerissimo. Ma un tuono dentro le mie orecchie… mi è rimasto il suo album di fotografie fatte durante i suoi viaggi. L’ultima foto, la più grande, c’è mia zia che balla con Raule, e sotto un suo scritto: “Titti quando avrai questo album, ricordati di vivere”. Seguito dalla sua firma: un disegnino di una faccina sorridente. Era maggio 2006, e ti ricordo ancora insieme a mia madre. Io sto ballando il valzer, solo che  lo sto ballando da sola…ma con la tutta la forza che mi avete insegnato.